Il lavoro e la dottrina sociale della chiesa

 

di Mauro Nemesio Rossi

In fisica il lavoro è il prodotto della forza applicata per lo spostamento. Se si allarga la speculazione si vede che per avere il massimo del rendimento entrambi gli elementi debbono estrinsecarsi sulla  stessa traettoria. Se invece sono ortogonali non esiste lavoro. In termodinamica esso lo si può accertare dalla pressione che esercitano i gas che si espandono.  Si potrebbe continuare ancora scomodando il magnetismo e l’elettricità, ma  sarebbe poco utile all’analisi che ci siamo proposti

In un precedente articolo pubblicato su varie riviste, ho preso in esame i due vocaboli maestro e lavoro che da soli hanno oggi, nel mondo contemporaneo, i più alti contenuti di esaltazione della personalità umana.

In quell’occasione richiamai l’attenzione come in passato il lavoro non fosse considerato magistero dell’uomo ma, piuttosto, una pena e una necessità finalizzata alla sopravvivenza.

Solo nel primo ventennio del 1800 la fisica ha scoperto, esaltandolo, il concetto di lavoro. Infatti, il termine lavoro fu utilizzato, per la prima volta, dallo scienziato francese Gaspard Gustave de Coriolis, operante con la rivoluzione industriale di quegli anni.

È dello stesso periodo la valutazione e l’esaltazione del termine lavoro che divenne oggetto di contrapposizione e di lotta da parte delle dottrine filosofiche di quel tempo.

In sintonia con esse la chiesa, che fino a quel momento era stata distratta, ne scoprì la validità e l’attualità tanto che la prima enciclica papale, con una lunga introduzione, compare alla fine del 1800.

I Vescovi scoprirono nelle Sacre Scritture, a cominciare dalla Genesi, nel Vangelo e nei suoi Libri, i momenti ispiratori di quella che poi sarà la cosiddetta “Dottrina Sociale della Chiesa” e che la caratterizzerà per la sua partecipazione alla politica quotidiana.

In realtà, sia il Vangelo sia la Genesi non considerano il lavoro come una esaltazione e una realizzazione della dignità  umana quanto, piuttosto, uno stato di necessità per la sopravvivenza.

La Bibbia si dimostra severa nei confronti dell’ozio per delle semplici ragioni; l’ozioso non ha niente da mangiare (Pr 13, 4) e rischia di morire di fame (Pr 21, 25); niente stimola a lavorare più della fame (Pr 16, 26); e S. Paolo, non esita a utilizzare questo argomento per mostrare in quale stato di aberrazione sono coloro che si rifiutano di lavorare: “che neanche mangino” (2 Ts 3, 10). Ancora, l’ozio è un decadimento; si ammira la donna sempre attiva, poiché “il pane che mangia non è frutto di pigrizia” (Pr 31, 27) e ci si fa beffe degli oziosi: “La porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto” (Pr 26, 14). Non è più un uomo, è “una pietra imbrattata”, “una palla di sterco” (Sir 22, 1-2), che si respinge con disgusto. In compenso la Bibbia sa apprezzare il lavoro ben fatto, l’abilità e l’attaccamento al proprio mestiere: del contadino, del fabbro o del vasaio (Sir 38, 26.28.30).

È colma di ammirazione per i frutti dell’arte: il palazzo di Salomone (1 Re 7, 1-12) e il suo trono, “non ne esistevano di simili in nessun regno” (1 Re 10, 20), ma, soprattutto, il tempio di Jahvè e le sue meraviglie (1 Re 6; 7, 13-50). La Bibbia non ha pietà per la cecità dei fabbricanti di idoli, ma rispetta la loro abilità e si indigna che tanta fatica sia sprecata per un “nulla” (Is 40, 19 ss; 41, 6 ss).

La venuta di Gesù Cristo proietta sul lavoro i paradossi e le illuminazioni del Vangelo.

Nel Nuovo Testamento il lavoro è contemporaneamente esaltato e ignorato o visto dall’alto, come se fosse un dettaglio senza importanza. È esaltato dall’esempio di Gesù, lavoratore (Mc 6, 3) e figlio di lavoratore (Mt 13, 55), e dall’esempio di Paolo che lavora con le sue mani (At 18, 3) e se ne vanta (At 20, 34; 1 Cor 4, 12).

Tuttavia i Vangeli mantengono un sorprendente silenzio sul lavoro; sembra che conoscano questa parola solo per indicare le opere cui occorre applicarsi, cioè quelle di Dio (Gv 5, 17; 6, 28), o per portare come esempio gli uccelli del cielo che “non seminano, né mietono” (Mt 6, 28).

A giustificazione di tutto ciò i teologi sostengono che la poca importanza data al lavoro da una parte e la sua valorizzazione dall’altra, non rappresentano una contraddizione, ma i due estremi dell’atteggiamento fondamentale del cristiano.

Nell’evolversi dei processi e nell’analisi della realtà complessiva, la Chiesa prende posizione, entra cioè nell’ambito della complessa e molteplice questione sociale e in questo contesto il problema del lavoro umano compare naturalmente molte volte.

È solo con l’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII che la chiesa affronta la moderna “questione sociale”.

Da qui la partenza e il continuo aggiornamento, conservando sempre quella base cristiana di verità alla quale, qualcuno, attribuisce una valenza perenne e universale.

All’indomani delle consegne delle Stelle al Merito del Lavoro avvenute, con modalità diverse, su tutto il territorio nazionale, nulla è stato detto, per l’occasione, sul rapporto tra lavoro e chiesa da parte di chi avrebbe dovuto rappresentare la categoria, nonostante quest’anno ricorra il 30° anniversario dell’enciclica di Papa Giovanni Paolo II “Laborem Exercens”.

Una tappa miliare per il mondo del lavoro perché sancisse e integra quello che Leone XIII aveva tracciato, mettendo in luce anche i punti fermi che la chiesa voleva affermare per distogliere i lavoratori da ideologie che nel nome del lavoro pretendevano di rinnegare principi fondamentali dell’uomo, come la religione e la proprietà.

“L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo.”

Erano queste le premesse che Leone XIII aveva messo alla base della sua enciclica. Preoccupava alla chiesa la strumentalizzazione dello stato di necessità che si era venuto a creare per i facili arricchimenti di un capitalismo selvaggio, ma anche il timore che, dietro alle rivendicazioni, a quel mettere il lavoro, lavoratori e il materialismo al centro del modello di vita, venisse meno quella politica di aiuto e cooperazione che il cristianesimo aveva ben individuato sia dal punto materiale che spirituale.

La “Questione operaia”, per la chiesa nel 1891, si poneva perentoria e non poteva né doveva rimanere fuori da un dibattito che animerà tutto il secolo successivo.

“Pertanto, venerabili fratelli – scriveva Leone XIII -, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.”

In Papa si faceva carico di un vuoto che si era creato nel momento in cui all’artigianato, al lavoro a mezzadria, si andava sostituendo un salariato selvaggio, senza regole e dove il lavoro era considerato un fattore subalterno al capitale e alla proprietà.

Molti operai definiti proletari per la grande moltitudine delle famiglie, vivevano in uno stato inammissibile e in condizioni considerate dalla chiesa miserevoli e indegne.

Uno status conseguente alla soppressione delle corporazioni di arti e mestieri.

“Senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa, continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi ha imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.”

Con la Rerum Novarum  la chiesa chiarisce la sua posizione  su temi che il secolo dibatteva: la dignità dell’uomo, qualunque siano le sue ricchezze, la responsabilità di ciascuno di fronte ai bisogni dei propri fratelli, i doveri della classe dirigente nei confronti dei governati.

Leone XIII pensando alla speculazione che immancabilmente sarebbe arrivata e affinché non si interpretasse la sua enciclica in chiave ideologica ma solo morale prese le distanze  nei confronti del movimento socialista che si andava affermando in Europa: “A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio dei ricchi, pretendono doversi abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’uguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono radicalmente riparato il male. Ma questa via, anziché risolvere la contesa, non fa che danneggiare gli stessi operai: ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli offici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale”. E ancora: “Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione”.

Pubblicato da maestrilavoro

ll “Centro Studi e Alta Formazione Maestri del Lavoro d’Italia” in sigla “CeSAF MAESTRI DEL LAVORO” è legalmente costituito in associazione culturale, senza scopo di lucro. Cura e promuove la formazione dei Maestri del Lavoro aderenti e degli affiliati laici intesi come persone non insignite Stella al Merito, ma che perseguono gli stessi fini quali: favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e a diffondere i sani principi a esso connessi, così come richiesto dal decreto del ministero del lavoro firmato dal presidente della repubblica per l’assegnazione della Stella al Merito.