«È necessario gestire col sindacato i grandi mutamenti in atto, prima che siano i mutamenti a stravolgere noi, Dio sa come».

presidente federazione maestri del lavoro
A casa conserva ancora un cartello, uno dei tanti sollevati con orgoglio per le strade di Torino in quel 14 ottobre 1980 che cambiò la storia – sindacale, ma non solo – dell’Italia repubblicana. C’è il riferimento di fabbrica (Mirafiori presse) e la “firma”, una “q” bianca in campo verde. «Quella “q” sta per “quadri”, spiega Luigi Arisio, oggi presidente nazionale dei Maestri del lavoro d’Italia, classe 1926, 43 anni di Fiat alle spalle, storico leader della “marcia dei quarantamila” e dunque protagonista di uno degli autunni più caldi: «Quella “q”, insiste, sta per “quadri intermedi”, né semplici operai né alti dirigenti; eravamo noi, i quadri, e noi, alla maggioranza silenziosa cui appartenevamo, abbiamo dato voce, coraggio, visibilità».
«Ventun’anni fa, tensioni e conflitti laceravano il Paese, incutevano paura», ricorda Arisio. «La Fiat stava cercando di riprendere il controllo degli stabilimenti minato da un sindacalismo selvaggio, aveva già licenziato 61 dipendenti in odore di terrorismo e aveva annunciato l’intenzione di procedere a forti tagli di mano d’opera al fine, dichiarò, di rimanere competitiva e reggere così l’urto della concorrenza, rafforzatasi grazie alle nuove tecnologie e a costi del lavoro più bassi. Il sindacato reagì con durezza, proclamando uno sciopero ad oltranza. Bloccò gli ingressi con picchetti che impedivano a tutti di entrare. Non mutò linea neppure quando l’azienda cambiò rotta (l’iniziale richiesta di 14 mila licenziamenti venne trasformata nella domanda della cassa integrazione a zero ore per 23 mila persone). La Federazione lavoratori metalmeccanici (Flm), in particolar modo, non capì che i tempi erano cambiati e che l’azienda era sul punto di soccombere. Non solo. Arroccandosi sulla linea dura, finì per perdere il consenso del resto della popolazione che all’inizio, quando si opponeva ai licenziamenti, ci fu».
Si arrivò così al 14 ottobre 1980. «Da oltre un mese, perdurando lo sciopero, nessuno percepiva più la retribuzione. Era crisi, crisi nera. Noi decidemmo di convocare un’assemblea pubblica presso il Teatro Nuovo. Spedimmo 17 mila lettere personali di invito ad altrettanti quadri intermedi Fiat. Terminato l’incontro sfilammo per le vie del centro fino in piazza Castello, dove ha sede la Prefettura. Il corteo s’ingrossò cammin facendo. Uno slogan, fra tutti, forse il più significativo: “Il lavoro si difende lavorando”. Le agenzie di stampa batterono la notizia: “Hanno marciato in quarantamila”. E marcia dei quarantamila fu. La vertenza si sbloccò la sera stessa. Capimmo che quella era la Caporetto di un certo modo di fare sindacato. Ricevetti minacce di morte: per qualche tempo fui costretto a muovermi scortato».
Un altro autunno sta per cominciare. Anche questo, gravido di incognite e problemi. Secondo Luigi Arisio, due caratteristiche accomunano i giorni nostri a quelli che visse nell’80: «Ci sono profonde trasformazioni in campo economico, che non tutti sanno o vogliono capire fino in fondo. Le nuove modalità del lavoro e le improcrastinabili riforme del sistema pensionistico o le gestiamo tutti insieme al meglio, o comunque si affermeranno da sé. Dio solo sa come. E poi, il terrorismo. Allora sembrava non dovesse finire mai. Ma in realtà si stava esaurendo. Ora, invece, sembra rinascere. Occorre vigilare, facendo tesoro della nostra storia recente».
Alberto Chiara
Mi domandò: ma eravate davvero quarantamila?»
«Dissero che la Fiat mi aveva pagato: risposi che alle feste sono abituato a pagare io da bere» DA UNO DEI NOSTRI INVIATI TORINO – Gli urlavano addosso che la Fiat l’ aveva pagato per fargli fare quella cosa. E quella cosa fu la marcia dei 40.000, l’ evento che il 14 ottobre dell’ 80 cambiò la storia del sindacato in Italia. Ma lui, Luigi Arisio, 76 anni, maestro del lavoro Fiat, l’ uomo che riuscì a coinvolgere la «maggioranza silenziosa» dei quadri Fiat che chiedeva soltanto di poter lavorare dopo 35 giorni di picchetti, quell’ accusa l’ ha sempre respinta. Con sdegno? No, con ironia. E fu quell’ ironia che conquistò l’ Avvocato. E’ anche lui un figlio di Borgo San Paolo, come il sindaco di sinistra per antonomasia della città, Diego Novelli. E come Piero Fassino che qui ha vissuto da giovane. Nella sua piccola casa di questo quartiere popolare racconta il «suo» Giovanni Agnelli. Arisio, cosa le disse l’ Avvocato quando seppe di quell’ accusa? «Ci aveva convocato, noi del coordinamento quadri e corpi intermedi Fiat, all’ 8° piano di Corso Marconi qualche giorno dopo la marcia. C’ era anche Romiti. La sera prima sul Tg2 un “cane sciolto”, gente che all’ epoca contava ben di più dei sindacalisti, mi aveva rivolto quell’ accusa. Io risposi che era stata una festa e alle feste sono abituato a pagare io da bere. Quella frase ad Agnelli piacque, lo fece “godere”, davvero. Tanto che di colpo si rivolse a me e mi disse ridendo “Arisio, quando ha detto quella cosa del pagar da bere è stato… impagabile!”. Fu il mio primo incontro con lui». Poi ne ha avuti tanti altri, vi univa la fede repubblicana vero? «Sì. Io entrai in Parlamento con il Pri nell’ 83, ebbi 14.000 preferenze, feci una legislatura. Alla mia campagna elettorale partecipò Susanna Agnelli. Mi chiamavano il Lech Walesa della Fiat per sfottermi. L’ Avvocato l’ ho incontrato tante volte alle premiazioni degli Anziani Fiat, per il centenario dell’ azienda mi regalò l’ orologio che porto sempre al polso. La volta che mi fece più piacere fu cinque anni fa, mi ero appena operato al cuore. Lui stava discorrendo con Giugiaro, si interruppe e mi chiese di botto: “Arisio, come va il suo cuore?”. Sono cose che non si dimenticano». Ma eravate davvero 40.000? «Questa domanda me la fece anche l’ Avvocato, sa? Gli dissi che Lama aveva buon gioco a dire che eravamo così tanti per coprirsi le spalle e io non l’ ho smentito. Ma gli dissi anche che io ero con Montanelli. Il quale disse: “Non è il caso di contarli, ma è il caso di dire che erano troppi…”. Lui sorrise». E. Ca. ARISIO E LA MARCIA
Caiano Enrico
26 gennaio 2003
I 40.000 trent’anni dopo: la marcia che cambiò il Paese
Il 14 ottobre del 1980 i quadri Fiat scendono in piazza. E chiudono la più drammatica vertenza della storia d’Italia. Nelle parole dei protagonisti, il racconto del “corteo silenzioso” che attraversò Torino e segnò la svolta nelle relazioni sindacali
di SALVATORE TROPEA
I 40.000 trent’anni dopo la marcia che cambiò il Paese Torino, 14 ottobre 1980
I manifestanti percorrono via Roma
ENRICO Berlinguer aveva promesso: “Se si arriverà all’occupazione della Fiat noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee”. E aveva scatenato un putiferio. Con non minore imprudenza Giorgio Benvenuto aveva coniato lo slogan: “O la Fiat molla o molla la Fiat”. Sulla linea intransigente della Fim Cisl torinese, Pierre Carniti aveva potuto minacciare in ritardo e inutilmente: “Siete stati bravi, ma io domani ne porterò in piazza 150 mila”. Luciano Lama e Bruno Trentin avevano tentato, senza successo, di far ragionare l’azienda e l’ala radicale del sindacato in parte vicina ai “professorini” – l’allusione era ai maestri del terrorismo – contrari a ogni ipotesi di dialogo e fautori dello scontro duro che predicavano dagli autobus-caravan parcheggiati davanti alla Mirafiori. All’origine di tutto questo c’erano 14 mila 449 licenziamenti poi trasformati in cassa integrazione a zero ore per oltre 22 mila lavoratori, una Fiat bloccata dai picchetti, una Torino su cui pesava l’ombra del terrorismo. E fu la “marcia dei quarantamila”.
Accadde nell’autunno di trent’anni fa, esattamente il 14 ottobre 1980, una di quelle giornate torinesi di sole scialbo e freddo quasi invernale. “Avevo scommesso con un mio collega scettico sul risultato che saremmo stati almeno cinquemila, mi sbagliai per difetto”. Luigi Arisio, leader dei capi Fiat e animatore di quella protesta inedita (più tardi diventerà senatore del Pri), era sicuro del successo. Sapeva che dietro c’era la regia di Cesare Romiti e dei “luogotenenti” Carlo Callieri e Cesare Annibaldi. Ma ancora trent’anni dopo preferisce pensare che a vincere furono la determinazione, la rabbia, la protesta spontanea dei capi Fiat. Che pure c’erano, eccome, dopo giorni di cortei, scontri, picchetti. “Li aiutammo a organizzare la protesta perché volevamo dare un segno che l’azienda esisteva ancora” ricorda Annibaldi allora responsabile delle relazioni esterne di Fiat.
“Chi farà l’analisi storica di questo conflitto dovrà occuparsi più degli errori commessi dalle due parti che delle mosse indovinate” commenta Giorgio Bocca a conclusione di quei 35 giorni: che nei vecchi taccuini di appunti e nella memoria di noi cronisti-testimoni hanno inizio l ’11 settembre con l’annuncio dei licenziamenti da parte della Fiat. Il 24 settembre il sindacato proclama lo sciopero generale per il 2 ottobre. Il 26 viene Berlinguer a Torino e davanti ai cancelli di Mirafiori “scivola” sulla frase dell’appoggio logistico del Pci all’eventuale occupazione. Il 27 ottobre cade il governo Cossiga e lo stesso giorno la Fiat trasforma i licenziamenti in “cassa”.
Piero Fassino, allora responsabile Pci per le fabbriche, dice che il suo partito “cercò di convincere il sindacato ad accettare l’offerta” e che quella linea “non passò per via del clima che si era creato”. Fausto Bertinotti, allora segretario della Cgil piemontese, ha un ricordo diverso: “Se l’hanno pensato nelle segrete stanze se lo sono detto tra di loro. Io non l’ho mai sentito. Solo Trentin avanzò l’idea di un cambio di passo rispetto ai presidi. Del resto la proposta della Fiat era indicibile perché era chiaro che i cassintegrati non sarebbero mai rientrati”.
Sullo sfondo c’è il terrorismo. La Fiat ha già pagato un prezzo di sangue altissimo. E’ passato appena un anno dall’assassinio dell’ingegner Carlo Ghiglieno. L’azienda continua ad essere sotto tiro. I capi ricevono messaggi come: “Vuoi finire i tuoi giorni in carrozzella?”. Perciò quando c’è la “chiamata” accorrono in tanti. “Avevo ventisei anni ed ero impiegato in un’area calda di Mirafiori Presse” ricorda Lamberto Borgogni. “Avevo ricevuto una telefonata, un passaparola. Andai al teatro ma non riuscii ad entrare, sentii dagli altoparlanti la voce di Arisio”. “Ancora una volta da Torino, capitale dell’operosità e della libera iniziativa, parte questo segnale di allarme” tuona dal palco il “capo dei capi”. La platea si scalda e quando alla tribuna va il vicesindaco, il socialista Enzo Biffi Gentili, per spiegare che la città trova legittima l’assemblea ma che la colpa di tutto non può ricadere solo sul sindacato, la reazione è furibonda: “Non venire a raccontarci storie, tornatene a casa, vai in Russia”. Il corteo parte a metà mattinata. Uno striscione avverte che quella che sta sfilando è una “maggioranza silenziosa”. E questa “maggioranza” non è fatta solo da capi e quadri intermedi che in tutto il gruppo Fiat sono poco più di 15 mila, di cui un terzo a Torino. Ci sono “altri”. Si dice che la Fiat abbia pagato l’affitto del teatro e anche le ore di lavoro ai dimostranti. “Non l’ho mai saputo, ma non escluderei che l’azienda abbia messo in conto qualche regalo” ammette oggi Annibaldi. Noi cronisti seguiamo il corteo che sceglie un percorso inusuale. Si dirige verso corso Marconi e sfila sotto le finestre del quartier generale della Fiat. Le serrande sono abbassate o socchiuse ma dietro s’indovinano mille occhi puntati sulla inedita “ribellione”.
“Eravamo curiosi di vedere se veramente i capi erano scesi in piazza come gli operai” ricorda un testimone. Dall’alto il colpo d’occhio deve suggerire l’idea della vittoria dei capi ma anche della Fiat che si riappropria di un’azienda diventata “terra di nessuno” dopo essere sfuggita al controllo dei suoi vertici. E del sindacato. In quei giorni, Vittorio Ghidella, capo del settore auto, vive e lavora all’Hotel Ambasciatori. “Per cercare di dare un senso di normalità a quella situazione che normale non era affatto” ricorda un collaboratore. Dentro Mirafiori è asserragliato un gruppetto di uomini Fiat col responsabile del personale Carlo Callieri. Romiti racconterà di essere andato una notte “a perlustrare il fronte avversario”. Ma a organizzare la protesta è Callieri che dorme dentro la fabbrica e gira armato di pistola: anche per questo lo soprannomineranno John Wayne. Ed è lui a raccontare: “Romiti era contrario alla manifestazione perché convinto che si potesse arrivare a un accordo ragionevole e perché dubitava del successo. Al punto che telefonò ad Annibaldi: “Annibà, questo Callieri è proprio pazzo, ci porta alla rovina. Veda lei””.
La mattina del 14 ottobre, mentre per le strade di Torino sfilano i capi, all’Hotel Boston di Roma si consuma l’ennesima riunione. Sono presenti Lama, Carniti, Benvenuto e Marianetti per i sindacati, Romiti, Ghidella, Annibaldi, Callieri per la Fiat. E lì arrivano le prime notizie che parlano di un corteo di oltre 20 mila persone. Diego Novelli, allora sindaco comunista di Torino, è a Roma nello studio del presidente della Repubblica Sandro Pertini: “Davanti a me il presidente telefonò ad Agnelli per chiedergli di adoprarsi per una soluzione. Ma era tardi”. Come Fassino dice che lavorò anche lui per far accettare la “cassa”. Invano. Perché il 14 ottobre di trent’anni fa sono i capi a dare il colpo risolutivo in un senso che non è né quello del Pci né quello del sindacato.
Quando il loro corteo arriva in piazza San Carlo, nel “salotto buono” di Torino è un lungo serpentone. “Fui sorpreso dalla presenza di molti operai e impiegati. E anche da tanta gente non Fiat” ricorda Mario Vigna, allora capo al Lingotto e oggi presidente dell’Associazione nazionale quadri. “C’erano cittadini comuni e i negozianti rialzavano le serrande abbassate per paura”. “Tutti ci chiedevano come mai non si vedevano bandiere rosse” racconta Arisio. In realtà il corteo procede quasi in silenzio. I loro slogan i “marciatori” li hanno affidati ai cartelli e agli striscioni: “Picchetti uguale violenza”, “Referendum, referendum” “la libertà di lavoro è un diritto”. Ai bordi delle strade la gente è assiepata come per i cortei del Primo Maggio. Qualcuno chiede “chi sono” e c’è chi sussurra: “Finalmente, era ora”. Noi cronisti facciamo i conti e arriviamo alla conclusione che la protesta ha messo assieme tante persone. I giornali titoleranno sulla “Marcia dei quarantamila”. Tranne La Stampa che ne ha visti 10 mila in meno. Nel pomeriggio la Procura della Repubblica ordina la smobilitazione dei picchetti. Nella notte arriveranno da Roma, Lama, Carniti e Benvenuto. L’accoglienza ai cancelli sarà turbolenta. “Lama nella bufera” titolerà Repubblica. “Siamo tutti nella bufera” commenterà il leader della Cgil al quale non sfugge che è cominciata in Fiat la “pax romitiana”.
(07 ottobre 2010)