La democrazia economica tra utopia e realtà

Fino a poco tempo fa le due parole democrazia ed economia unite tra loro hanno formato e dato luogo ad un connubio linguistico che, acquisito dalla scienza economica e traslato nella scienza politica, sono state intese e percepite piuttosto come una dicotomia, quasi un ossimoro. Ciò è accaduto poiché, insieme, sono state lette ed interpretate impropriamente, limitatamente e pur rizomaticamente come ambiti riconducibili a categorie sociali contrapposte. Il concetto stesso, nonché la stessa categoria ideale di democrazia economica, sono state oggetto nel tempo di argomentazioni divisive nella opinione pubblica e nei dibattiti tra gli studiosi di economia, sociologia, storia e politologia.

Una delle chiavi di lettura di questa antinomia ce la fornisce l’antropologia economica che spiega il comportamento umano attraverso l’antropologia, dottrina concernente la natura umana, e l’economia, cioè l’osservazione e lo studio della produzione, la distribuzione, la circolazione di beni e servizi anche di tipo simbolico come il sapere, una tecnica, una ideologia politica oppure religiosa. Questa disciplina (antropologia economica) ci dice che con la modernizzazione, cioè l’insieme dei processi di cambiamento e mutamento su larga scala, che hanno investito le varie e diverse compagini sociali nel corso dei tempi, si sono trasformate ed evolute profondamente le strutture ed i modelli di organizzazione sociale e di produzione. In particolare le precondizioni che hanno portato alla moderna democrazia economica prendono le mosse con il nascere di quello che inizialmente fu l’asintotico equilibrio di poteri che si instaurò tra la monarchia assoluta, tesa ad affermare il potere totalitario della corona, ed il crescente potere della nobiltà, tesa a limitarne l’ascesa. Questo precario bilanciamento, col passare degli anni, diede luogo al parlamentarismo, e diede, poi, anche l’occasione alla borghesia di tutelare gli interessi per la garanzia dei diritti civili e politici, innanzitutto quelli inerenti la proprietà privata.

Successivamente l’evoluzione mercantile dell’aristocrazia terriera favorì l’affermarsi di forme organizzate di democrazia mediante l’alleanza tra aristocrazia possidente e borghesia con la conseguente progressiva liberazione dei contadini dai vincoli feudali. Con le rivoluzioni inglese, americana, francese, si ebbe la definitiva affermazione della democrazia economica come la conosciamo oggi attraverso un primo embrionale coinvolgimento dei lavoratori nei processi di governo di impresa. Questo retaggio antropologico e culturale ha connotato gli albori della società moderna ed ha visto contrapposti, in maniera un po’ miope ed esclusiva, gli interessi, come pure le posizioni, le categorie, tal volta collocazioni, schieramenti concettuali o di appartenenza, tra le classi datoriali, la c.d. “proprietà”, alle loro controparti sociali, cioè le classi lavoratrici e le loro rappresentanze. N.d.r. la miopia è nel non vedere che, sebbene da prospettive diverse, entrambe le categorie vantano, con ampio spettro, un diritto di proprietà: l’una quella dei c.d. “mezzi di produzione”, l’altra quella della c.d. “forza lavoro”. In pratica sono due facce di una stessa medaglia in costante irreversibile simbiosi tra loro. Didascalicamente profili, operatività, processi applicativi di diversa specie hanno dato luogo al perenne negoziato tra le due innanzi dette parti in causa. Negoziato, a sua volta che si è evoluto specialmente nel periodo storico in cui si è legiferato in materia di diritto societario. Altresì quando sono state disciplinate le società di capitali, specialmente, e quelle di persone, per regolare l’innovativa (all’epoca) esigenza economica di parcellizzare in piccole quote ampiamente distribuite la proprietà con l’azionariato diffuso, per la realizzazione di grandi progetti che richiedevano enormi risorse. Di seguito, si rassegnano le più comuni modalità attraverso le quali si è realizzata la democrazia economica.

Una prima specie è quella delle pratiche partecipative all’interno delle imprese nelle quali i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel C.D.A. e/o nei Comitati direttivi delle aziende pubbliche o private di appartenenza influendo nelle scelte gestionali e strategiche. Vi sono, poi, accordi e forme di partecipazione finanziaria dei lavoratori al capitale e/o all’utile dell’impresa senza alcun potere e rappresentanza. Sono i casi in cui in presenza di particolari risultati di bilancio vengono assegnate ai dipendenti quote societarie (azioni) oppure quote degli utili c.d. premi in denaro. In una prospettiva e visione più estesa il concetto di democrazia economica comprende altresì la necessità di un diverso governo dell’economia mondiale. In particolare, relativamente ai beni comuni di come questi debbano essere gestiti autonomamente dalle comunità interessate ai vari livelli locali, nazionali, globali. In tal senso si assume che i cittadini dovrebbero poter controllare e cogestire con i loro rappresentanti i servizi pubblici di cui sono utenti e di cui, come contribuenti, sono anche proprietari. Lo strumento attuativo di questo tipo di gestione economica è stato individuato nel c. d. “Bilancio partecipato” che serve a normare ed indirizzare le politiche di spesa a favore dei cittadini ed a migliorare il funzionamento dell’apparato statale. In ambito europeo le forme di democrazia economica si sono sviluppate attraverso la creazione della Società Europea e dei Comitati aziendali europei. La prima è una peculiare forma di società, da costituire esclusivamente sul territorio della UE, e che funziona sulla base di un regime di costituzione unico europeo e di un gestore unico totalmente svincolati dalle normative statali di ciascuno degli Stati di appartenenza. I secondi (CAE Comitati Aziendali Europei) sono organismi rappresentativi dei lavoratori, previsti da una specifica direttiva europea, aventi il fine dell’informazione e della consultazione transnazionale dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di dimensioni comunitarie. Una analisi condotta su alcune imprese quotate nelle borse UE ha dimostrato che le società che hanno adottato sistemi di cogestione hanno avuto performance migliori di quelle che non prevedono forme di partecipazione dei lavoratori nei board delle imprese. In ambito nazionale, chiaro ed esemplare l’enunciazione del principio partecipativo affermato dai nostri padri costituzionali e riportato nell’art. 46 della nostra Costituzione che recita “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze di produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. N.d.r. nell’enunciato appare palesemente esplicitato anche l’intento di attenuare i conflitti sociali.

Il dibattito politico, poi, ha proposto varie formule di democrazia economica aventi carattere negoziale, e di democrazia industriale volte a conferire un nuovo ruolo ai lavoratori con un loro controllo diretto sulle attività delle singole aziende. In alcuni casi in concomitanza di crisi o di ristrutturazioni aziendali sono stati raggiunti accordi partecipativi che hanno ridato competitività alle imprese e corretto asimmetrie nella distribuzione dei poteri.

Con l’evoluzione culturale e civile, il progresso tecnologico, l’introduzione e l’adozione di innovativi sistemi di organizzazione del lavoro, con la crescita delle nuove generazioni, si assiste in questi ultimi anni ad un graduale abbandono di quel retaggio antropologico di cui si è detto in premessa e che mal coniugava democrazia ed economia. Transitando al più recente ed immediato contesto economico, specie a seguito della pandemia, emerge una struttura produttiva frantumata con settori che spariranno ed altri che si irrobustiranno, con consumi che cambieranno e con rapporti economici tra le diverse aree del mondo ancora tutti da scoprire. Sul piano sociale si assiste ad un aumento delle diseguaglianze ed a rapide quanto improvvise trasformazioni di status economico. Non è pensabile continuare a produrre ed a consumare come prima. La coscienza di questa necessità si sta diffondendo tra le imprese, i lavoratori, i politici.

La prospettiva è quella di pervenire alla trasformazione e rivisitazione dei modelli economici nella misura in cui alla crisi economica ed a quella sociale si aggiunge la coscienza della sostenibilità ambientale.

Questi tre aspetti costituiscono un unico paradigma che, per conciliare la sostenibilità di una crescente domanda globale di benessere, richiede l’individuazione e l’introduzione di forme di produzione rispettose del creato, delle logiche di accumulazione e di redistribuzione inclusive e solidali, così come esplicitate nell’alveo del filo conduttore e dell’insegnamento proposti da Papa Francesco. Ontologicamente e socialmente è da considerare che la democrazia economica è uno degli sviluppi della democrazia politica, forse il suo naturale completamento. Si è dell’avviso che nella complessa modernità globale non vi è luogo alla possibilità che la democrazia politica si affermi senza completarsi nella democrazia economica. Bisogna evitare di cadere nel tranello concettuale di mettere in discussione la proprietà privata, né di annullare le diverse responsabilità nella gestione dei mezzi di produzione ma, proprio come nella democrazia politica, si tratta di concepire e praticare i diritti e la partecipazione di tutti i soggetti ancorché diversamente coinvolti nei destini del processo economico. Il futuro prossimo venturo, oltre a reggersi su un patto generazionale, dovrà essere governato da un nuovo patto sociale, corroborato da solidi principi di solidarietà cristiana.

MDL Cav. Giuseppe Taddei 

Pubblicato da maestrilavoro

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