Attualità di John Maynard Keynes

Seconda Parte

Ma per farlo dovette ricostruire dalle fondamenta la teoria economica a prezzo di una lunga lotta per sfuggire … ai modi abituali di pensiero e di espressione … ed alle vecchie idee che ramificano, per quanti di noi sono stati allevati in esse, in tutti gli angoli della mente.’

 

Questo appello agli economisti perché si sforzassero di uscire dal campo ristretto delle formulazioni astratte – specialmente quelle di carattere matematico – per “sporcarsi le mani” con i fatti e con le passioni politiche degli uomini spiega il fascino straordinario che Keynes esercitò sugli economisti del suo tempo, e in particolare su quelli più giovani. Fascino che divenne irresistibile quando l’aumento apparentemente inarrestabile della disoccupazione e della povertà seguito al crollo di Wall Street del ’29 rese palese l’inanità delle teorie economiche tradizionali. La forza del messaggio di Keynes fu quella di offrire una spiegazione convincente delle cause della crisi, accompagnata dal rifiuto morale di rassegnarsi da-vanti a questi problemi e dalla ricerca di risposte concrete e sperimentabili. Nel 1933, mentre andava prendendo sempre più forma nella sua mente la Teoria generale, in un opuscolo intitolato The Means to Prosperity scrisse:

 

Se la nostra povertà attuale dipendesse da una carestia o da un terremoto, se mancassimo di beni materiali e delle risorse per produrli, non potremmo ritrovare la via della prosperità se non attraverso il duro lavoro, l’astinenza e l’inventività. E ovvio, invece, che i nostri problemi hanno un’altra origine. Essi vengono da un cattivo funzionamento delle nostre menti … Per risolverli, non serve null’altro che un piccolo sforzo di pensiero. Ma solo quello sforzo potrà risultare efficace.’

 

Per i primi trent’anni del secondo dopoguerra è sembrato che l’interpretazione keynesiana del funziona-mento delle economie capitalistiche fosse ormai la spiegazione e che le implicazioni che ne discendevano dal punto di vista della politica economica fossero solide e indiscutibili. Poi, dalla metà degli anni settanta del seco-lo scorso, la rivoluzione keynesiana ha perso rapida-mente mordente e vigore e sono ritornate in auge, pur se confezionate in forme apparentemente nuove, le idee che la Teoria generale aveva spazzato via. Un ritorno al passato che ha fatto sì che la scienza economica perdesse nuovamente di vista, nel prevalere dei modelli formali, la sua vera ragion d’essere, quella di contribuire a risolvere i problemi dell’umanità.

A partire dal 2007-2008 il crollo del mercato dei sub-primes negli Stati Uniti, l’ondata dei fallimenti bancari, l’improvviso venir meno dei canali di circolazione della moneta, il diffondersi della crisi in tutto il mondo e il panico evidente dei governi e delle istituzioni internazionali hanno incrinato le certezze pre e post keynesiane, di cui si erano nutriti in questi ultimi decenni il mondo accademico e i governi. Sebbene non si sia avuto “il ritorno del Maestro” auspicato da Robert Skidelsky,  né sia stato restituito alle politiche keynesiane il ruolo che esse avevano svolto dopo la fine della seconda guerra mondiale, qualcosa però è successo: il clima è cambia-to, il discorso è di nuovo aperto. Se la legittimità e la necessità di un dibattito sul funzionamento dei sistemi economici di mercato e sulle conseguenti politiche economiche si sono rese evidenti ovunque, questo vale ancor di più in Europa, dove quello che può chiamar-si “il consenso antikeynesiano” ha assunto un carattere particolarmente dogmatico, fino a essere iscritto nella lettera stessa dei trattati istitutivi dell’Unione economica e monetaria dell’Unione Europea.

Il nostro obiettivo è quello di contrastare l’idea che il pensiero keynesiano costituisca un episodio circoscritto nella storia del pensiero economi-co del Novecento – opinione affermatasi nelle università americane a partire dagli anni settanta del secolo scorso e tuttora largamente dominante. Vuole invece mostrare che l’analisi di Keynes delle luci e delle ombre dei sistemi economici di mercato è assolutamente attuale e che da essa discende l’esigenza di un intervento pubblico correttivo delle tendenze spontanee di questi sistemi. In queste pagine non mi propongo semplicemente una riesposizione delle teorie di Keynes, né una rivendicazione della loro validità alla luce delle vicende economi-che più recenti. L’obiettivo è di spiegare con la massima accuratezza in che cosa l’analisi di Keynes si differenzi da quelle degli economisti classici che lo avevano pre-ceduto e come Keynes sia riuscito a sfuggire ai “modi abituali di pensiero e alle vecchie idee” che circolavano allora e hanno ripreso a circolare oggi.

Per compiere questo recupero è indispensabile comprendere come e perché le nuove idee di Keynes si siano diffuse così rapidamente all’indomani della pubblicazione della Teoria generale, ricostruire il modo in cui egli sia pervenuto a riformulare l’interpretazione del funzionamento del sistema economico e individuare le idee di fondo sul capitalismo che preesistevano alla elaborazione della Teoria generale. I primi tre capitoli seguono questa traccia. L’ultimo tocca invece il tema della rilevanza del pensiero keynesiano rispetto alle discussioni politi-che che si svolgono nelle società contemporanee. Sessanta o settant’anni di battaglie fra economisti “classici” e “keynesiani” non hanno fornito una risposta univoca al quesito su quale delle due interpretazioni approssimi meglio la realtà del funzionamento dei sistemi di mercato, ovvero se un sistema di mercato lasciato a se stesso tornerebbe in tempi ragionevoli verso un equilibrio soddisafacente o se invece sia da auspicare un intervento cosciente della mano collettiva : in altre parole, se sia la domanda e l’offerta a determinare l’equilibrio macroeconomico. E dunque? La conclusione sarà che la scelta fra attivismo nella politica economica e inerzia è una scelta di carattere essenzialmente politico.

Per molti decenni il discrimine fra destra e sinistra è stato segnato dal giudizio di fondo sull’assetto finale che avrebbe dovuto avere il sistema economico dal punto di vista del controllo sui mezzi della produzione. Da un la-to i sostenitori del capitalismo; dall’altro i sostenitori della necessità di una radicale trasformazione delle basi stesse del sistema economico nel senso del socialismo. Poco importava la distinzione, nel campo dei sostenitori del capitalismo, tra i fautori del laissez-faire assoluto e quanti invece auspicavano interventi correttivi da parte dello stato; così come poco importava la distinzione, nel campo dei fautori del socialismo, fra quanti volevano pervenire al socialismo per via democratica e quanti ne auspicavano l’avvento per via rivoluzionaria.

Oggi, venuta meno l’alternativa radicale fra capitalismo e socialismo, il discrimine fra destra e sinistra deve porsi altrove, nel seno stesso del campo, ormai unificato, dei sostenitori del capitalismo. Proprio qui il pensiero keynesiano può rivelarsi utile, non solo come tecnica di politica economica, ma anche come strumento per sceverare politicamente fra posizioni più o meno conservatrici. Ed è questo – è la mia conclusione – lo spartiacque che separa destra e sinistra in Europa oggi. La destra ha dalla sua parte la lettera dei Trattati Europei, soprattutto del Trattato di Maastricht, e la filosofia che impronta l’operato delle istituzioni europee, dalla Commissione di Bruxelles alla Bce. La sinistra ha dalla sua l’evidenza della scarsa crescita dell’area dell’euro, l’elevatissima disoccupazione, le ineguaglianze sociali sempre più accentuate, e ha quindi titolo per ingaggiare una battaglia volta a cambiare le leggi e la filosofia delle istituzioni europee, avendo, nelle politiche keynesiane, il più forte e organico complesso di proposte programmatiche.

Pubblicato da maestrilavoro

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