Processo Bottillo – Un documento scoperto dal CESAF nei misteri di Villa Vitrone

Il processo sarà rievocato presso la Università della Terza Età in Santa Maria Capua Vetere venerdì 17 alle 16,30 nella sede di via Tari. Grazie al ritrovamento del carteggio originale da parte del giornalista Mauro Nemesio Rossi (che sarà presente nell’occasione), presidente del CESAF Maestri del lavoro d’Italia e direttore del Museo Olivetti di Caserta sito in Villa Vitrone a Caserta.  Il processo verrà rivisitato in una edizione inedita elaborata dal cronista giudiziario Ferdinando Terlizzi (che è anche responsabile dell’ufficio stampa) nell’Aula Magna dell’Università della Terza Età di Santa Maria Capua Vetere.

Nella ricostruzione storica la parte dell’avvocato difensore dell’imputato sarà sostenuta da Francesco Tavera. Gli interrogatori dell’imputati saranno rievocati da Gennaro Stanislao, mentre quelli dei testi saranno presentati da Salvatore Romano. La privata accusa sarà sostenuta da Antonietta Barbato e quella della pubblica accusa nel ruolo del procuratore generale da Francesco Pecoraro, mentre il compito di condurre il dibattimento sarà appannaggio di Ferdinando Terlizzi.

 

Il duplice delitto fu consumato a Santa Maria Capua Vetere, nel luglio del 1870, in casa del ricchissimo Michele Visconti. Il movente era da ricercarsi nel licenziamento in tronco per scarso rendimento. Dopo il delitto occultò i cadaveri nella cantina del palazzo. Sottrasse ori, diamanti e fedi di credito del Gran Libro del  Debito Pubblico del Regno d’Italia  per vari milioni. Giudicato dalla locale Corte di Assise fu condannato a morte. Alla difesa due tra i più importanti avvocati dell’epoca: Pietro RosanoFrancesco Girardi.

Le cronache dell’epoca raccontano che Antonio Bottillo, 37 anni, da Cervinara,  ex monaco terziario nel  convento dei Francescani a Napoli, dopo aver sedotta una minorenne, era fuggito da Napoli e venuto  a Santamaria era stato assunto come servitore presso la ricca famiglia dei Visconti.

Il 14 luglio del 1870, una mattina, appunto verso le sette, appena abbrustolito il caffè, aggredì e uccise a coltellate il suo padrone Michele Visconti; poi, recatosi nella camera da letto dove dormiva strangolò la figlia Rosina, una giovanetta di appena 18 anni.

Dopo il duplice delitto scavò una fossa nella cantina di casa e vi seppellì i due cadaveri. Motivo? Il padrone gli aveva detto che non sapeva cucinare e lo aveva minacciato di licenziamento.

Per occultare il suo duplice omicidio il Bottillo a chi cercava (parenti amici e conoscenti) notizie sulla scomparsa del padre e della figlia narrava che i due erano andati per un certo tempo in vacanza a Napoli e facevano i bagni tra Lucrino e Ischitella e che lui li aveva accompagnati fino all’angolo di Corso Garibaldi per aiutarli nel peso del loro baule.

Per accreditare ancora di più la tesi dell’allontanamento volontario aveva fatto sparire gli indumenti dei due, sottratto ori e fedi di credito fedi di credito del Gran Libro del Debito Pubblico del Regno d’Italia, per vari milioni, che aveva ricettato poi presso un personaggio napoletano coinvolto nel processo, tale Giovanni La Ruffa.

La Sezione di Accusa non ritenendo affatto vere le circostanze inventate al solo scopo di mettere in campo una provocazione contestò al Bottillo il reato di duplice omicidio aggravato dalla premeditazione (il secondo delitto eseguito per assicurarsi l’impunità del primo) il furto vari oggetti e denaro, il tutto aggravato dalla sua qualità di servitore. Allo stesso tempo venne incriminato il ricettatore presso il quale furono rinvenuti gli oggetti.

Il relativo processo – definito dalla stampa dell’epoca – “uno dei processi  più celebri  ed interessanti nei fasti della giustizia penale”-  si svolse nel 1871 presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di cui era Presidente Francesco Santamaria; la pubblica accusa venne sostenuta dal  pubblico ministero, il procuratore generale Cesare Oliva; gli avvocati difensori, per Bottillo furono  Pietro Rosano (allievo di Nicola Amore) e Francesco Girardi (allievo di Leopoldo Tarantino); per il ricettatore napoletano l’avvocato Niccola Mottola.

La privata accusa fu sostenuta dall’avvocato Francesco D’Amore (unico avvocato sammaritano amico di famiglia delle vittime).

Subito dopo furono interrogati  i numerosi testimoni: Maria Sticco, moglie separata  e madre naturale della Rosina Visconti; il commissario di polizia, Achille Magliano; l’ex cuoco della famiglia Visconti, il napoletano Pasquale Zarlengo; il medico di famiglia Dr. Pietro Morelli (forse quello a cui poi è stata intitolata una strada a Santamaria); il calessiere,  o cocchiere,  Raffaele Avenia, che condusse in carrozza il Bottillo a Napoli; il sacerdote Raffaele Fratta; i barbieri Abramo Pagano e Aniello Bizozzero; la capera, Caterina Cipullo, che curava i capelli della giovane Visconti; Padre Salvatore Candido, da Napoli, che svelò le precedenti disavventure del monaco (stupratore, vinaio, rapinatore); i suoi ex servitori,  Nicola Manone e Giovanni Teti; Giulia Della Corte, amica della giovane uccisa; Teresina Bobbio e Rachele Panaro, altre amiche della vittima. L’apprendista notaio Enrico Code, che la mattina del delitto aveva un appuntamento con Michele Visconti per discutere di alcune rendite.

Quindi i giurati si ritirarono in camera di consiglio e alle questioni  loro  presentate  i  giurati  risposero  affermativamente  ritenendo  i  due imputati colpevoli secondo l’accusa. Il Bottillo cioè di due assassini per premeditazione in persona del padre e figlia Visconti, e colla qualifica bensì di essere stato il secondo, commesso allo scopo di occultare il primo. Il La Buffa poi di ricettazione di oggetti furtivi senza precedente concerto coll’autore del furto. A costui furono accordate le circostanze attenuanti. La Corte condannò il primo alla pena di morte ed il secondo a 4 mesi di carcere computandosi il carcere già sofferto.

Non appena il presidente ebbe letta la sentenza  colla quale al Bottillo veniva comminata la pena di morte, s’intese nella sala un vivo mormorio di gioia e molti applausi.

Il Presidente allora diè immediatamente ordine ai Carabinieri di fare sgombrare la sala, rivolgendo al pubblico le seguenti gravi parole: “Questa gioia feroce è indegna di un popolo civile”.

Eseguito l’ordine si lesse il resto della sentenza. Il condannato Antonio Bottillo protestò subito di ricorrere in Cassazione, e come egli disse di volere appellare per Napoli, rinunciando al Circolo di S. Maria.

Pubblicato da maestrilavoro

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